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Gocce di Anatomia, Long Covid e danno endoteliale: nuove evidenze

Uno studio appena pubblicato condotto da medici e ricercatori degli Istituti Clinici Scientifici Maugeri (https://www.mdpi.com/2077-0383/11/5/1452) su pazienti convalescenti per forme severe di COVID-19 ha mostrato – tra le altre cose – che la perdita di funzionalità polmonare poteva essere associata ad una alterazione della perfusione e degli scambi aria-sangue a livello polmonare. Questo dato è una ulteriore riprova del fatto che il danno d’organo più severo in questi pazienti si verifica a livello dei loro vasi e, in particolare, del loro endotelio.

Sebbene le cellule endoteliali dei vasi hanno caratteristiche fenotipiche differenti a seconda del distretto anatomico nel quale si trovano argomentano gli autori nel loro studio << la disfunzione endoteliale presenta degli aspetti comuni indipendentemente dall’organo colpito. È facile pertanto concludere che la stessa tipologia di danno che gli autori di questo studio dimostrano essere presente a livello polmonare possa colpire l’endotelio di altre strutture del corpo umano, come ad esempio il cervello, il cuore, i reni e l’intestino. Ma serviranno ulteriori studi per confermarlo, nonché per comprendere la natura etiopatogenetica del danno.

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Noi abbiamo formulato, ormai quasi due anni fa, ossia all’inizio della pandemia, una ipotesi che ha trovato finora solo conferme, ossia che il danno è indotto da un fenomeno noto come “mimetismo molecolare” che induce una aggressione autoimmune in pazienti predisposti e in cui la carica virale supera una sorta di “valore soglia” oltre il quale si scatena per l’appunto il fenomeno autoimmune. Quindi non in tutti i pazienti – per fortuna – si verifica un danno autoimmune a carico dei vasi, ma è necessario 1) che vi sia una carica virale elevata (cosa che il vaccino previene) e 2) che il soggetto sia “predisposto”.

Quali sono i possibili fattori predisponenti? È difficile dirlo ma in diversi laboratori nel mondo, incluso i nostri, li si stanno ricercando. La prima ricerca che va fatta è di tipo bioinformatico: ricercare “epitopi” (ossia pezzettini di proteine) comuni tra proteine umani e proteine virali. Per avere un esempio di questi studi, si guardi: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7289093/ o https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7402394/.

Poi, una volta identificati potenziali proteine umane “bersaglio” per il sistema immune, bisogna cercarne la presenza nei tessuti prelevati da soggetti deceduti per COVID-19 (da cui l’importanza, più volte richiamata, di effettuare autopsie in questi soggetti: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7287760/). Per un esempio anche di questi studi, si guardi: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/34831356/.

Infine, bisogna cercare potenziali autoanticorpi contro queste proteine nel sangue dei pazienti, inclusi quelli affetti da long COVID; questi studi sono in progress, ma l’ipotesi è risultata tanto plausibile da meritarsi uno spazio anche sull’importante rivista del gruppo Lancet: https://www.thelancet.com/journals/lanmic/article/PIIS2666-5247(21)00033-1/fulltext

Identificare potenziali marcatori di malattia potenzialmente grave è estremamente importante in quanto consente di effettuare una protezione mirata nei confronti di questa popolazione, che si traduce in una prevenzione dal rischio di morte o di malattia grave.  I pazienti con long COVID, indipendentemente dall’età, manifestano sintomi cardiaci, respiratori, nervosi e a carico di altri organi; identificarne la causa (autoimmunità?) e rimuoverla può significare migliorare sensibilmente la qualità di vita di questi soggetti.

di Francesco Cappello
© Riproduzione Riservata
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