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Disturbi psicotici: nuove scoperte sul trattamento della schizofrenia

La Schizofrenia, nel DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei Disturbi Mentali) è stata inserita tra i disturbi dello spettro della schizofrenia e altri disturbi psicotici insieme. Si tratta di patologie che condividono la medesima sintomatologia, ovvero: deliri, allucinazioni, pensiero e comportamento disorganizzato e sintomi negativi. La Schizofrenia è un disturbo psichico che implica disfunzioni a livello cognitivo, emotivo e comportamentale e che dunque determina la perdita di contatto con la realtà.

In Italia i casi di Schizofrenia sono circa 245.000 e anche se non vi è ancora molta chiarezza sulle cause, sembra trarre origine da diversi fattori, quali:
genetici, la schizofrenia può manifestarsi a seguito di cambiamenti ormonali e fisici (come quelli che si verificano durante la pubertà negli adolescenti e negli adulti) o dopo aver affrontato situazioni fortemente stressanti; biologici, le persone con schizofrenia presentano uno squilibrio biochimico che si verifica a livello cerebrale e che coinvolge alcuni neurotrasmettitori, come la dopamina, il glutammato e la serotonina. Lo squilibrio di queste sostanze chimiche influenza il modo in cui il cervello reagisce agli stimoli, il che spiega perché una persona con schizofrenia può avere difficoltà nell’elaborazione di stimoli e, come tutto ciò può condurre ad allucinazioni; ambientali, la schizofrenia può dipendere da infezioni virali o disturbi immunitari. La sua incidenza è però stata anche collegata alla stagione di nascita.

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L’insorgenza dei primi sintomi avviene tipicamente nella tarda adolescenza (a partire dai 16 anni circa) ed il loro decorso è molto lento. Sono invece, molto rari i casi in cui la sintomatologia compare in età infantile.
I sintomi tipici di questa psicopatologia vengono generalmente suddivisi in due categorie: quelli 
positivi e quelli negativi.

Tra i sintomi positivi che, sono indicativi di “una perdita di contatto” con la realtà, vi sono: allucinazioni; deliri; pensiero disorganizzato e agitazione.

sintomi negativi invece, sono associati ad un’interruzione dei normali flussi emotivi e dei comportamenti. Tra questi ci sono: diminuzione dell’espressione delle emozioni; isolamento sociale; appiattimento emotivo; anedonia; apatia; deficit della produzione verbale; difficoltà a mantenere l’attenzione e asocialità.

Poiché le cause della Schizofrenia sono ancora sconosciute, i trattamenti si focalizzano principalmente sull’eliminazione dei sintomi della malattia.

Il trattamento generalmente consigliato per questa patologia è quello farmacologico, che prevede la somministrazione di farmaci antipsicotici o neurolettici (come ad esempio la clorpromazina, l’aloperidolo, la perfenazina e la flufenazina). Queste sostanze sortiscono un effetto antidelirante ed antiallucinatorio, agendo sui canali dopaminergici e dunque sullo squilibrio biochimico presente a livello cerebrale nei pazienti schizofrenici.
L’efficacia dei neurolettici è stata ampiamente indagata ed i risultati non solo mostrano una riduzione del rischio di recidiva ma, anche un minor rischio di ospedalizzazione per i soggetti che assumono antipsicotici. Tutto ciò si traduce positivamente sulla qualità della vita di questi pazienti.
È fondamentale però integrare i trattamenti farmacologici siano coadiuvati ad altre forme di terapia, quali la psicoterapia e i “trattamenti psicosociali”, in quanto è molto importante per i pazienti schizofrenici lavorare sul contenuto dei loro pensieri negativi, ma anche su altri fattori come le relazioni interpersonali, i legami di attaccamento, le problematiche interpersonali, le perdite, i traumi, sull’autostima e l’autocontrollo ed inoltre avere l’opportunità di poter perseguire i propri obiettivi di vita, come frequentare la scuola o il lavoro.

Recentemente in uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Molecular Psychiatry” del gruppo Nature, ricercatori dell’Università di Catania e dell’Istituto Italiano di Tecnologia hanno realizzato una scoperta sul ruolo della genetica nella schizofrenia, che contribuirebbe a chiarire la variabilità nell’efficacia dei farmaci antipsicotici. I ricercatori, infatti, hanno dimostrato che l’interazione di due specifici geni (DTNBP1 e D3) è determinante per migliorare gli effetti dei farmaci antipsicotici.

Il team di ricerca è stato coordinato da Gian Marco Leggio, ricercatore nel gruppo diretto dal professore Filippo Drago, presso l’Università di Catania, e da Francesco Papaleo, senior researcher dell’Istituto Italiano di Tecnologia a Genova.

Grazie all’uso di un database messo a disposizione dal National Institutes of Health (USA) che include i dati relativi ad un campione di 393 pazienti con schizofrenia, il team di ricerca ha dimostrato che i soggetti che presentano contemporaneamente variazioni dei geni DTNBP1 e D3 (che può riguardare dal 10% al 20% dei soggetti), mostrano migliori risposte terapeutiche nell’area cognitiva ai farmaci antipsicotici. Come dichiarato dagli stessi ricercatori si tratta di una primo passo per sviluppare terapie mirate ed efficaci contro questa malattia, consentendo di distinguere i soggetti che, in base al corredo genetico, possano rispondere meglio alla terapia da quelli che invece non rispondono positivamente ai farmaci antipsicotici.

I farmaci disponibili oggi sul mercato, infatti, riescono a migliorare solo in parte le alterazioni cognitive e solo in una piccola percentuale di pazienti. È auspicabile quindi che la ricerca sul trattamento dei disturbi cognitivi in ambito psichiatrico possa intensificarsi negli anni successivi perché essi costituiscono un’importante causa di disabilità ancora irrisolta.

di Valentina Palminteri
© Riproduzione Riservata
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