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Stress: il “burnout” nel posto di lavoro aumenta il rischio di diabete tipo 2 e non solo

sindrome di burnout

Ci sono almeno 36 studi prospettici di qualità, e quindi affidabili nelle conclusioni, che chiariscono le relazioni tra stress lavorativo e conseguenze fisiche, psicologiche e occupazionali.

Chi soffre della sindrome di burnout ha un rischio di sviluppare diabete tipo 2 di quasi due volte rispetto a chi non ha il burnout.

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Ma non è solo il diabete ad essere associato allo stress: il burnout nel posto di lavoro aumenta di quasi tre volte il rischio di avere elevati livelli di colesterolo nel sangue e di più di due volte quello di sviluppare malattie cardiovascolari.

Ma accanto a queste importanti patologie e condizioni ci sono altri disturbi associati: dolori muscolari, cervicalgie, insonnia, depressione, disturbi gastrointestinali, infezioni respiratorie e fatica cronica.

C’è anche un aumentato rischio di incidenti stradali e accidentali in genere.

Ma cosa è esattamente la sindrome di burnout? Si tratta di una sindrome caratterizzata da esaurimento psico-fisico i cui principali fattori scatenanti sono il sovraccarico di lavoro e la scarsa remunerazione.

Colpisce soprattutto lavoratori che credono fortemente nel loro lavoro e che pertanto si trovano nella condizione di non poter realizzare i loro obiettivi di qualità per colpa di una organizzazione che non fa sentire il suo interesse nei confronti dei lavoratori o che non soddisfa il corretto carico di lavoro.

Un lavoratore affetto da burnout sviluppa quindi un grande senso di frustrazione e insoddisfazione nei confronti del proprio lavoro e si assenta di più.

Questi studi dimostrano che ci si ammala di più con costi per la società che riguardano sia la riduzione di attività sul posto di lavoro che i costi relativi alla cura delle condizioni patologiche che si presentano con una aumentata probabilità.

Si pensi alla sanità dove la carenza di personale si somma a condizioni lavorative di per se molto stressanti.

In questo ambito è necessario rivalutare il giusto rapporto di personale medico, infermieristico e degli operatori socio-sanitari nei vari reparti e non si può continuare a parlare di bilanci, o tetti del personale per mantenere in condizioni precarie le strutture ospedaliere del sistema sanitario regionale e italiano.

Il problema dei tetti relativi al personale sembra essere superato (forse) ma la produzione ospedaliera impropriamente valutata economicamente spesso è il risultato di una carenza di personale soprattutto in alcuni settori.

Insomma, il gatto che si morde la coda per non parlare dei DRG (così vengono valutati i ricoveri) che sono sganciati dai veri costi di produzione.

In conclusione, ci si augura che i livelli decisionali che contano promuovano i giusti cambiamenti: l’organizzazione sanitaria va rivista sia nei suoi modelli organizzativi per ottimizzare i processi facendo lavorare meglio i professionisti (secondo le regole dettate dal lean thinking per esempio) che occupandosi dei lavoratori stessi al fine di creare un ambiente organizzativo sano e stimolante capace di proteggere i propri professionisti dallo stress lavorativo nell’interesse ultimo, ma certo non per importanza, del paziente e della relativa qualità dell’assistenza .

di Salvatore Corrao
© Riproduzione Riservata
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