L’emergenza non è più quella pandemica, ma quella sistemica. Il ricorso ai medici e infermieri a gettone, utilizzato soprattutto durante gli anni più duri del Covid, è diventato oggi il sintomo più evidente della crisi strutturale della sanità pubblica. Un modello nato per fronteggiare un’urgenza, ma che in regioni fragili come la Sicilia si è trasformato in prassi consolidata. Il risultato? Una sanità che rinuncia alla continuità assistenziale e alla valorizzazione del personale strutturato, perdendo progressivamente il senso del servizio pubblico.
Come funziona?
I numeri parlano chiaro. Secondo la relazione annuale 2024 dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), presentata lo scorso 20 maggio, il valore dei contratti per i medici a gettone è aumentato del 20% rispetto al 2023, passando da 35,2 a 42,3 milioni di euro. Ancora più marcata la crescita della spesa per gli infermieri a gettone: +49% in un solo anno. Complessivamente, nel 2024, la spesa prevista per questa modalità di impiego ha toccato i 457,5 milioni di euro. Nel periodo 2019-2024, l’Italia ha destinato complessivamente o 2 miliardi e 141 milioni di euro di euro al personale a gettone.
La Sicilia spende, ma non investe
La Sicilia è tra le regioni che più ricorrono a medici e infermieri a gettone. Nel 2024 ha speso 10.347.920 euro per il personale medico a chiamata, seconda solo al Veneto, superando persino regioni più popolose come Piemonte e Lombardia. Un paradosso soprattutto se confrontato con le denunce quotidiane sulla carenza di personale, sui concorsi deserti e sullo svuotamento delle strutture periferiche. In questo quadro, fa notizia l’eccezione della provincia di Trapani, dove non risultano impiegati né medici né infermieri a gettone. Una rarità che può indicare una migliore gestione o, forse, l’impossibilità economica di adottare una stessa via a tratti più “comoda“. In ogni caso, un’eccezione che non basta a invertire la rotta regionale.
Per approfondire le implicazioni di questo fenomeno, noi de ilSicilia.it abbiamo intervistato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe.
1. La spesa per medici e infermieri a gettone è in costante crescita, anche dopo la pandemia. A suo avviso, cosa rivela questo trend sullo stato di salute del sistema sanitario regionale e nazionale?
Nino Cartabellotta
“Il fenomeno era già evidente nel 2019 e nel 2020, con una spesa complessiva superiore ai 180 milioni di euro all’anno. Nel 2021, il valore è aumentato significativamente, raggiungendo quasi 284 milioni di euro. Nei bienni 2022-2023, la spesa si è attestata attorno ai 210 milioni di euro annuali, per poi salire nel 2024 a 457,5 milioni di euro, più del doppio rispetto all’anno precedente. Questo trend indica una fragilità strutturale: le Regioni ricorrono sempre più a personale a chiamata per coprire turni scoperti. È il segnale di una scarsa programmazione e di una ridotta attrattività della sanità pubblica, non certo di una flessibilità virtuosa”.
2. Come valuta l’efficienza di questa spesa pubblica, a fronte del fatto che molte Regioni denunciano contemporaneamente la carenza di personale strutturato?
“È una toppa molto costosa: con queste risorse si potrebbero finanziare migliaia di assunzioni stabili tra medici e infermieri. Ogni gettone garantisce ore di copertura, ma non consolida il capitale umano; serve solo a rimandare il problema, drenando risorse che dovrebbero andare a rafforzare gli organici permanenti”.
3. Quali sono, secondo lei, i rischi principali, sia economici che clinici, legati all’impiego massiccio di medici e infermieri a gettone?
“Dal punto di vista economico, il personale viene reclutato tramite agenzie di somministrazione del lavoro e cooperative, con costi rendicontati come spese per beni e servizi, senza generare competenze che restano in reparto. Dal punto di vista clinico, il turn-over continuo mina il lavoro di équipe e compromette la continuità assistenziale, soprattutto in aree critiche come pronto soccorso e terapia intensiva”.
4. Esistono stime affidabili su quanto costerebbe, a parità di prestazioni, assumere stabilmente quei professionisti invece di ricorrere ai gettonisti?
5. Il ricorso ai gettonisti può avere un impatto sulla qualità dell’assistenza o sulla continuità delle cure, specie nei reparti ospedalieri più critici nella nostra Regione?
“Assolutamente sì. Chi lavora in maniera occasionale in una struttura non conosce i colleghi, le procedure, le dinamiche organizzative e non segue il percorso del paziente. Nei reparti ad alta complessità questo si traduce in un rischio maggiore di errore clinico e in un carico ulteriore per il personale strutturato, che deve “fare da regia” per professionisti sempre diversi”.
6. Concorsi deserti, stipendi poco attrattivi, carichi di lavoro insostenibili: cosa dovrebbe cambiare, secondo lei, per rendere di nuovo desiderabile lavorare stabilmente nel nostro sistema sanitario?
Il fenomeno dei gettonisti in Sicilia rappresenta una toppa cucita male su uno strappo che si allarga ogni anno di più. Finché si continuerà a ragionare in termini di emergenza e non di riforma a pagare questo prezzo non sono solo i conti pubblici, ma soprattutto chi lavora in prima linea, logorato da turni massacranti e da una perenne precarietà. Il ricorso sistematico ai gettonisti rappresenta una forma di privatizzazione della sanità pubblica, attuata con fondi pubblici. Non si investe in assunzioni, non si rende attrattivo il lavoro ospedaliero, non si premiano le competenze interne. Si preferisce la scorciatoia più rapida, più costosa ma senz’altro più instabile. Una sanità che va perdendo progressivamente il senso del servizio pubblico.