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La psicoterapia modifica il cervello: lo dimostrano le neuroscienze

La psicoterapia è un percorso di trattamento dei disturbi psicologici che si realizza in una serie di incontri con un professionista psicoterapeuta.

Lo scopo della psicoterapia è promuovere un cambiamento tale da alleviare in modo stabile alcune forme di sofferenza emotiva.

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Così come stabilito dalla legge 58/89 l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia.

Recentemente, molti neuroscienziati hanno sostenuto che la psicoterapia non è solo un efficace trattamento psicologico, in grado di indurre dei significativi cambiamenti nella sfera psichica, negli atteggiamenti e nel comportamento dei soggetti affetti da un disturbo, ma che anche produce un’alterazione dell’espressione dei geni, che producono mutamenti strutturali nel cervello e, più precisamente, dei cambiamenti nell’attività funzionale di alcune aree del cervello.

Sinora, oltre trenta ricerche pubblicate su riviste scientifiche internazionali hanno indagato le modificazioni dei meccanismi neurobiologici a seguito di un intervento psicoterapico applicato a disturbi come la depressione, il disturbo da attacchi di panico, il disturbo ossessivo-compulsivo e alcuni disturbi di personalità. Questi studi sperimentali si sono avvalsi dell’uso delle moderne tecniche di visualizzazione in vivo del cervello, come la tomografia a emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (FRMI).

Nello 2001 un team di ricercatori guidato da Brody ha studiato tramite PET due gruppi di pazienti, trattati rispettivamente con psicoterapia interpersonale (IPT) e con un farmaco antidepressivo (paroxetina), osservando in entrambi i casi, al termine del trattamento, un processo di normalizzazione nei pattern metabolici.

In particolare si è riscontrata una diminuzione del metabolismo nella corteccia prefrontale (che regola e modula le informazioni legate all’umore e alle emozioni provenienti dal sistema limbico) e nel caudato (area sottocorticale), e un incremento a livello del lobo temporale inferiore e dell’insula, la cui attività disfunzionale è correlata alla ruminazione depressiva (susseguirsi di pensieri ed immagini negative).

Nello stesso anno uno studio di Martin e collaboratori  ha verificato, attraverso misurazioni tramite la SPECT (Single Photon Emission Computed Tomography), che pazienti depressi, dopo essere stati trattati con IPT o con un antidepressivo, presentavano un aumento del flusso cerebrale a livello dei gangli della base, strutture coinvolte nella regolazione dell’umore. Inoltre, solo nei pazienti sottoposti ad IPT, si riscontrava una maggiore attività anche nella corteccia del cingolo posteriore di destra.

Una ricerca del 2004 condotta da Goldapple con l’obiettivo di indagare gli effetti cerebrali di un diverso approccio psicoterapeutico, quello cognitivo comportamentale (CBT), confrontando i dati ottenuti prima e dopo il trattamento, si è osservato un decremento metabolico nella corteccia prefrontale (PFC) ed un incremento nelle aree limbiche (cingolato dorsale ed ippocampo). Cambiamenti opposti a quelli osservati in uno studio precedente con pazienti trattati con un antidepressivo.

Nell’interpretare i dati gli autori hanno collegato questo decremento metabolico riportato nella PFC alla diminuzione dei processi di ruminazione, e l’incremento dell’attivazione nelle aree limbiche all’aumento dell’attenzione verso stimoli emozionali rilevanti.

Secondo Goldapple e collaboratori questi dati dimostrano l’esistenza di diversi meccanismi cerebrali alla base dell’efficacia del trattamento psicoterapeutico e di quello farmacologico. La psicoterapia agirebbe attraverso un processo dall’alto verso il basso, con la corteccia come iniziale sito d’azione: diminuendo l’attività corticale ed aumentando il metabolismo a livello dell’ippocampo e del cingolo dorsale, tali cambiamenti interverrebbero sui processi legati alla memoria e all’attenzione. Mediante la psicoterapia si otterrebbe, dunque, una riduzione della ruminazione e dei pensieri intrusivi, caratteristici dello stato depressivo, ed un conseguente minore sforzo cognitivo a carico della persona.

Il farmaco, invece, opererebbe un effetto dal basso verso l’alto, agendo sui centri emozionali le cui attività disfunzionali contribuirebbero all’origine ed al mantenimento dello stato depressivo. Queste differenze rispecchierebbero, inoltre, i diversi effetti a lungo termine dei due trattamenti terapeutici, con minori episodi di ricaduta nel caso del trattamento psicoterapeutico.

Importanti risultati sono stati ottenuti anche in pazienti con fobia sociale, Furmark e colleghi hanno sottoposto soggetti con fobia sociale a trattamento psicoterapeutico o farmacologico per valutare i cambiamenti nel flusso sanguigno cerebrale durante l’esecuzione di un compito emotivamente ansiogeno (parlare in pubblico). Confrontando i risultati ottenuti prima e dopo il trattamento, è risultato che il miglioramento dei sintomi dell’ansia sociale si accompagnava ad una normalizzazione nel metabolismo in più regioni cerebrali tra cui l’amigdala e l’ippocampo, coinvolte nell’espressione delle reazioni di paura ed ansia agli stimoli minacciosi.

Le neuroscienze, quindi, ci dicono che la psicoterapia non solo è efficace, ma che il suo effetto si riverbera anche nelle nostre reti neurali. Sebbene ancora agli albori di questo tipo di indagine, sembra che l’intervento psicoterapico influisca su diversi circuiti cerebrali, sia a livello macroscopico che in termini molecolari e che queste modificazioni si correlano al miglioramento clinico di questi soggetti.

di Valentina Palminteri
© Riproduzione Riservata
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